Matteo Carriero
Mancanza di spazio
di Matteo Carriero
Nella Milano notturna, dopo dieci ore di lavoro Nico tornava a casa con gli occhi infossati, per niente allegro. Camminava verso il suo enorme co-condominio di periferia, nato anni prima dalla fusione di cinque edifici vicini.
Entrato nel colosso, incontrò il signor Milicare sul pianerottolo. Era un uomo tarchiato e calvo con dei lunghi basettoni ricci. Non si può dire che Nico lo amasse: il signor Milicare abitava sopra di lui e ogni sera i suoi novanta chili gli pesavano sulla testa.
“Buonasera signor Nicotera.”
“‘Sera” mugugnò Nico, ma quando il vicino continuò per le scale, bisbigliò fra sé: “Stupida incudine! Porco!”, stringendo i pugni e arrossendo di rabbia.
Poi entrò nella sua stanza. Un solo vano: un metro e mezzo per lungo, uno per largo. Il soffitto più basso di lui. Era uno dei piccoli sgabuzzini che riempivano gli abitabili di periferia.
Si tolse la giacca e la posò sul pavimento di tela. Un attimo dopo, il sostegno di ferro che era al centro della stanza e reggeva il soffitto scricchiolò: il signor Milicare era rientrato.
Nico si sgranchì le dita, indolenzite per le ore passate a piegare bordi di scatoloni. Riaprì la porta della sua stanza, alzò la mano e staccò la lampadina del pianerottolo; la portò dentro tirando il filo e richiudendo l’anta la incastrò fra la porta e lo stipite superiore.
Tutto solo nel suo cantuccio, con una bella luce forte, era tentato di leggere il suo nuovo libro, Cane e padrone di Thomas Mann.
Ivo, l’addetto alla microbiblioteca gli aveva detto: “Oh, quello? È un libro noioso, non succede nulla. Un uomo col suo cane va in giro per i boschi, lungo i fiumi, e descrive descrive e non la finisce più.”
“Davvero?” aveva detto Nico, “me lo dia!”
Tirò fuori il volume dalla giacca e si passò una mano sulla testa, per vecchia abitudine. Sentendo la pelle glabra imprecò: “Tutti così noi dei co-condomini, tutti così siamo finiti!”
Poi si dispose alla lettura: reggendo il libro con una mano, con l’altra spinse il puntello di ferro più avanti; subito il soffitto scoperto scricchiolò, ma Nico drizzandosi in piedi ci si incastrò a reggerlo con la testa. Restò un attimo fermo a controllare il soffitto: sì, era stabile.
Fece scorrere a destra la lampadina attraverso la porta, poi spalancò il libro e continuando a fare da sostegno cominciò a leggere, a perdersi e a viaggiare.
Nel grigio freddo della mattina guardava fuori dal rapibus e vedeva correre ai suoi fianchi gli enormi agglomerati residenziali: le aberrazioni nate dalla fusione scomposta dei vecchi palazzi, che gli sfrecciavano ai lati come giganteschi mostri arrivati dal futuro o da un altro pianeta.
Tutt’attorno a lui, i colossi di cemento si protendevano fino al cielo alimentati senza tregua dalla sovrappopolazione.
La routine gli giocava brutti scherzi: un attimo dopo, senza capire come, già piegava i bordi delle scatole davanti al nastro trasportatore della fabbrica. Era incastrato come al solito: i suoi gomiti si muovevano dall’alto in basso, mentre quelli dei suoi due vicini si muovevano bassi, rasi alle scatole. In orizzontale tutte le braccia s’intersecavano, e ogni schiena confinava con la schiena degli operai della fila dietro, voltati in senso opposto.
Nico, nel secondo tra una scatola e l’altra, gettava occhiate qua e là e constatava con tristezza quanto fossero ridotti male, tutti quanti. Gli unici a non essere calvi erano alcuni giovani, che mostravano ancora qualche grumo secco di capelli; ma il resto delle teste erano glabre, con gli occhi infossati. “È lo spazio” diceva sempre Nico. “I capelli cadono perché non hanno abbastanza spazio intorno!” Gli altri lo prendevano in giro per queste uscite, le rarissime volte che parlavano, ma Nico sapeva d’aver ragione.
Dopo il lavoro passò dalla microbiblioteca. Era un cantuccio coi libri poco più largo del suo sgabuzzino; Ivo ci stava incastrato, aveva scavato la sua sagoma in mezzo alle pile di carta.
Nico lo salutò, disse che gli era piaciuto il libro di Mann e gli chiese di consigliargliene un altro.
“Ho fra le mani questo di Salgari” disse Ivo “del secolo scorso. C’è molta azione, poi isole e mare, mare a perdita d’occhio. Potrebbe piacerti.”
“Mi fido” rispose Nico, sorridendo quieto.
Prima che se ne andasse Ivo gli porse un altro libro, la copertina strappata, tutto gualcito.
“Ascolta, questo lo devo buttare. È un vecchio libro di fantascienza, un’antologia di racconti.”
Nico storse il naso.
“Beh, comunque io lo devo buttare, se lo vuoi te lo regalo.”
Ci pensò su ancora un attimo. “Ma sì, dammelo” disse poi. “Al massimo lo butterò io.”
All’entrata laterale del co-condominio incontrò di nuovo il suo capo, il signor Milicare. Che il suo vicino fosse anche il suo capo non deve stupire: la loro fabbrica riempiva metà dell’agglomerato residenziale. “Oh, signor Nicotera! Come sta? Sta bene?” gli chiese l’uomo affiancandolo.
Tutta quella confidenza lo insospettì: “Mah, sa, sono un po’ stanco. Lei sembra allegro.”
“Sicuro che sono allegro, mi hanno concesso cinque giorni di vacanza! Cinque” ripeté allargandogli davanti la manona.
“Buon per lei” fece Nico fingendo noncuranza “le auguro di divertirsi.”
“Grazie, grazie. Altrettanto!”
Un attimo dopo Nico era nella sua tana.
“Almeno potrò stare cinque giorni senza il sostegno fra i piedi” pensò togliendosi la giacca e tirando fuori i libri. Il soffitto s’incurvò leggermente e Nico volse il naso all’insù: “Quel porco andrà fuori città”, si ripeté incredulo. Erano anni che una persona che conosceva non lasciava la città. “E ora starà mangiando a casa, e fra poco getterà la spazzatura nel cassettone collegato al canale dell’immondizia. Chissà quant’è larga casa sua”, pensò ancora una volta. Poi prese in mano il libro di Salgari, dall’invitante copertina colorata.
“No, meglio dare un’occhiata a quell’altro”, si disse. “Domani lo dovrò gettare; già dormire col paletto in mezzo alla stanza non c’è posto, se poi lascio a terra qualcos’altro…”
E così spinse il sostegno di ferro per fare spazio e si mise a puntellare il soffitto con la testa, preparandosi a leggere quel libro di prospettive future ormai divenute vecchie.
Aprì a caso e lesse di un gruppo di uomini alla ricerca d una nuova Terra. “Come sempre, fecero un mucchio di storie e, come sempre, eseguirono il loro compito in metà del tempo preventivato. Mah.
Nico tornò ad aprire il libro sul primo racconto, nettamente più lungo degli altri.
La mattina dopo prese il suo posto e cominciò a piegare, come al solito. Il libro di fantascienza non gli era piaciuto, non lo aveva neanche finito. Prima d’entrare a lavoro lo aveva gettato. Il primo racconto parlava di un pianeta dove c’erano centinaia di macchine al servizio degli umani. Robot tutti uguali, di metallo chiaro, talmente simili che si faceva fatica a riconoscerli; alcuni di loro ne approfittavano per evitare di lavorare e obbedire, e poi pensavano perfino di sfruttare la loro indistinguibilità per compiere un omicidio. “Che stupido libro.”
Piega e piega, piega e ripiega. Attorno solo uomini calvi dagli occhi scuri e pesanti, vestiti tutti di grigio.
Piega e piega, d’un tratto un pensiero l’attraversò. Mosse lo sguardo a destra, poi a sinistra. Non ricordava neanche i nomi di quelli che aveva a fianco. Erano tutti sconosciuti.
Piega e ripiega, l’idea l’attraversò ancora.
Tra una scatola e l’altra Nico la studiava e ristudiava, un secondo alla volta, la guardava da un lato e poi da un altro, angosciandosi: era sicuro che ci fosse qualcosa che non andava, che non aveva calcolato. Ma col passare delle scatole si faceva sempre più convinto. Dopo un’ora, l’idea l’aveva reso euforico. Era già un assassino.
Il perché era chiaro: lo spazio. Poteva avere più libri, mangiare a casa ma soprattutto ottenere delle vacanze. Uscire da tutto quel gioco di scatole cinesi, brutte grigie e incastrate.
Nel giro di alcuni minuti fu certo anche del quando: appena il capo tornava dalle ferie.
Rientrato a casa, il paletto riposto nell’angolo, sedette a terra e poggiò la guancia sul pugno. La cosa più facile gli sembrava entrare in casa di Milicare, ammazzarlo e buttarlo giù nel boccaporto dei rifiuti, facendolo finire chissà dove. Ma poi pensò: “Se ci trovassimo tutti e due sulla parte del suo pavimento che dà sulla mia stanza, rischieremmo di far crollare tutto”.
Ma Milicare ci dormiva, sopra la sua testa, e dagli scatti metallici uditi ogni sera era certo che il boccaporto non fosse in quell’angolo. La cosa sembrava fattibile: bastava ammazzarlo fuori dalla porta, e poi in qualche modo buttarlo nei sistemi della spazzatura. Ma ammazzarlo come? Con cosa? Milicare era molto più grosso di lui. Nico si guardò attorno cercando qualcosa d’acuminato, ma la sua stanza era vuota. Non possedeva niente.
Nico era cambiato da quando aveva intravisto la possibilità d’uno spazio più grande, e forse anche di poter lasciare la città. Gli occhi restavano infossati, ma l’idea l’aveva come corroborato. Si sentiva forte come un macchina, sicuro che ce l’avrebbe fatta. Si era convinto che a mani nude non sarebbe riuscito a finire il capo, e che la soluzione migliore era di buttarlo ancora vivo nell’immondizia: al convergere dei condotti condominiali stava un tritatutto. Una volta dentro, addio Milicare.
La sera che il capo tornò, Nico scivolò come un’ombra fuori dal suo vano e sgattaiolò su per le scale. Milicare aveva una grossa valigia con sé, pareva assai stanco. Per un attimo Nico pensò di chiedergli com’era fuori, com’era la non-città, ma fu solo un attimo: avrebbe verificato di persona.
Appena il capo aprì casa, gli piombò dietro, colpendolo alla nuca con tutta la sua forza.
Con i muscoli tesi oltre il limite, spinse dentro l’omaccione e gli schiantò la testa sopra un pannello, come un ariete contro un muro.
Sangue.
Nico respirò e si sentì forte: era quasi fatta. Aprì il cassettone dei rifiuti e ce lo ficcò dentro.
“Aiuto” urlò il capo, ma il suono venne attutito dalle pareti del condotto. Era rimasto incastrato. Nico prese l’unica sedia della stanza e gliela sfasciò a tutta forza fra la schiena e il culo. Il capo venne risucchiato e svanì nel buio.
Le mani gli tremavano. Si chiuse dietro la porta, alzò le braccia in alto e fece tre giri su se stesso. “Aria!”
Respirò forte, mugugnò di piacere. “Aria!” ripeté, come drogato.
Si guardò attorno in estasi, come un bambino rimasto chiuso nella gelateria. Attaccati alle pareti c’erano un portaoggetti, uno scomparto per i cibi pronti, il tritarifiuti e perfino un pitale a scomparsa. Li aprì e li chiuse per un po’, poi allargò le braccia e riprese a roteare per la stanza, sopra i resti della sedia rotta.
Con i crediti del signor Milicare comprò un abito scuro identico al suo, lo indossò e la mattina seguente si presentò al lavoro come niente fosse. In tasca aveva i documenti della vittima, ma non credeva gli sarebbero serviti. Entrò nella fabbrica delle scatole, passò davanti la sua fila di montaggio (CE) e poi davanti la sua postazione (193SG).
Guardò attentamente la schiera d’operai. Nessuno diede il minimo segno d’averlo riconosciuto.
Tirò dritto, cinque-dieci-venti passi e s’infilò nell’ufficio di Milicare.
Una specie di reggia, tre metri per tre. Ma non aveva tempo per guardarsi intorno. “Resta concentrato” si disse. “Ora viene il bello”.
Quando il suo nuovo superiore entrò nell’ufficio, Nico si alzò per andargli incontro. “Signor Marloni”, lo accolse. Quello lo guardò stranito. “Sono appena tornato dalle vacanze. Sa, ne ho approfittato per farmi operare: una liposuzione delle migliori! Peccato solo che mi abbiano tagliato i basettoni.”
“Oh” rispose il Marloni facendo spallucce “beh, signor… Milicare” riuscì a ricordare “complimenti, si sentirà in gran forma.”
“Sicuro. Mi devo ancora abituare alla voce più acuta, ma non ci vorrà molto. Pensi un po’ - continuò in tono molto lento, dopo una pausa - mentre ero in vacanza, ho anche…”
“Sì, sì, deve essersi divertito tanto, ma ero solo venuto a dirle che fra due giorni avremo una riunione nell’ufficio del direttore” lo interruppe il Marloni annoiato; poi girò sui tacchi e se ne andò per evitare che il subalterno lo trattenesse ancora.
Nico scoppiò a ridere e si sedette alla scrivania.
Aveva funzionato. E chiunque in quella fabbrica avrebbe potuto farlo.
“Fra due giorni licenzierò l’operaio scomparso, il signor Nicotera, secondo la politica della ditta, per evitare noie di qualsiasi tipo”. Aveva solo da mettere timbri, organizzare i turni di lavoro e fare una comunicazione di tanto in tanto. Sgranchì i piedi sotto il tavolo, soddisfatto.
Inspirò col naso, chiuse gli occhi.
Quella sera, tornato a casa si preparò un ricco pasto, usò con cura il pitale e si stese comodamente a leggere nel ventre del palazzo. Ma s’interruppe spesso, toccandosi la testa glabra, pensando a quando avrebbe avuto il primo permesso per lasciare la città e fuggire per sempre dall’affollata Milano.
Si può rimediare
Lucio non ricorda nulla della fine della guerra, o della morte della mamma.
L’ultima cosa che ricorda è la fame, le lacrime che aveva sempre sul viso e che finirono col seccarsi.
Una mattina la sua fame improvvisamente svanì.
Oggi Lucio è il bambino più veloce del paese. Quando corre per le strade sembra spazzarle come lo scirocco.
Quando rientra la sera si guarda attorno disorientato finché gli occhi non s’abituano alla penombra, poi si sfila le scarpe con un calcio e si getta sulla brandina.
Papà sta lavorando a un pastorello, chino sul banco con la lampada elettrica accesa. I suoi occhiali riflettono delle strisce di luce sul soffitto.
Sono sempre soli, Lucio papà e la lampada.
― Chiudi tutto.
Il bimbo si alza e guarda fuori. Per le strade di Lecce non c’è più nessuno, solo due uomini lontani che bevono sotto la colonna di sant’Oronzo.
Rovescia il cartellino APERTO e torna dentro. Le statue colorate che contornano la stanza si confondono nell’oscurità, perdendo di volume.
Da un paio di anni anche papà ha smesso di mangiare. E non dorme quasi più.
La notte accende la luce e si mette a lavorare su un prezioso cumulo di cartapesta, che all’alba ripone sotto il letto. Lucio lo osserva con gli occhi socchiusi, mentre piega il fil di ferro e dà forma alla paglia con una determinazione incrollabile.
― Alzati piccolo, dobbiamo aprire. E domani è pure il tuo compleanno!
Papà è considerato un’artista più che un artigiano, ma nella bottega non entra mai nessuno. Lui dice che sono “i tempi”. Lucio lo aiuta come può e nel tempo libero vaga per la città in cerca di cani, gatti e piccoli tesori.
Quella sera, come ogni vigilia di compleanno, suo padre lo accarezza lungo i capelli, poi gli stringe la nuca finché non giunge uno strappo secco e Lucio cade addormentato.
Allora papà gli sfila i pantaloni e le calze. E poi ancora, come fossero un altro paio di calzini, i piedi, mentre per la stanza si spandono fruscii di carta stropicciata.
Papà gli tira su la pelle fino al ginocchio, rimboccandola come se fosse l’orlo dei calzoni, poi comincia ad allungargli le gambe rimpolpandole, di tanto in tanto, con della nuova carta.
Raddrizza i fili che s’intersecano nelle ginocchia e passa a sistemargli il resto del corpo.
― Buon compleanno!
Papà lo tira su dal letto che ancora dorme, e Lucio si risveglia volando sulle sue braccia. Il suo sorriso si trasforma in una risata irrefrenabile.
Papà lo porta davanti allo stipite del bagno e scrive “131”. ― Atri dieci centimetri quest’anno. Vai, hai la giornata libera. Ma attento, stasera ti aspetta una grande sorpresa.
Il piccolo s’infila le scarpe senza slacciarle e si lancia fuori gridando.
Lucio è il bambino più veloce del paese.
Corre spiccando grandi balzi per evitare i sampietrini sconnessi, saluta gli artigiani e si allontana dal centro lungo le vie di terra battuta.
Si risveglia sotto una ginestra. L’odore dei fiori gli pizzica le narici.
Passa il pomeriggio curiosando nel mercato delle cianfrusaglie e quando rientra nel laboratorio vede gli occhi di papà brillare come spiccioli al sole.
Lucio s’avvicina al tavolo con i sacchetti-regalo, mentre papà apre la porta del bagno e fa qualche passo indietro.
Il piccolo lancia frasi di meraviglia studiando le carabattole nei sacchetti, finché una mano candida si posa sulla sua spalla, leggera come un fiocco di neve.
Il bimbo indietreggia ma l’immensa dolcezza di quel viso gli fa capire tutto.
― Mamma! ― urla lanciandosi su di lei.
Le labbra color ciliegia della mamma si torcono improvvisamente.
La testa di Lucio spunta fuori dalla sua schiena, contornata da un collare vittoriano di cartapesta e paglia.
Alcuni ferri si sono infilzati nel collo del bambino, che muove i piedi disperato, mentre
le gambe della mamma indietreggiano tentando di mantenere l’equilibrio.
― Dio! ― urla il babbo. ― Non vi preoccupate. Rimetto tutto a posto, amori miei, ve lo prometto. Con la cartapesta si può rimediare.