Manuela Palchetti

Manuela Palchetti - corso di scrittura Semicerchio 2009 

PICCOLE STORIE DI ORDINARIO DISORDINE

IO E VOI

Non si può capire la schizofrenia se non si capisce la disperazione

Ronald David Lang

C’è un muro tra me e voi. O forse sarebbe meglio dire un baratro, un baratro dove tutto precipita, una profondità infinita che solo pensarla dà la vertigine, che contiene tutto e che non ha fine. Immaginate se potete una voragine con al centro un dolore che vi risucchia vorticando: giù, giù fino in fondo e non sai se il fondo arriva, né se questa discesa finirà mai. Perchè per me non esiste passato né futuro, io sono quello che voi non riuscite mai ad essere, nonostante talvolta ci proviate e lo desideriate, io sono colui che vive solo nel presente: il mio presente è tutto o niente, è gioia estrema o disperazione e non vedi altro che quel momento, che può essere anche una totale assenza, un’estraneità assoluta da tutto.

Io vi chiedo di immaginare ma so già che ciò è impossibile perché quello di cui parlo vi è estraneo e voi vivete in un altro mondo; uno spazio che non ha niente a che fare con il mio, dove tutto è mediato, ragionato, programmato, dove si può anticipare o rimandare e quindi non saprete mai dove io vivo.

Ed io mi chiedo come viviate voi, con tutti quei se, quei forse, con le vostre visioni soffuse, voi che quando qualcosa vi spaventa o vi appare oscuro lo mettete fuori dalla vostra orbita. Come fate con me, con un’etichetta o uno stigma per catalogare qualcosa che non capite e di cui non sapete assolutamente niente.

Talvolta vorrei capire, vorrei sperimentare quella realtà ovattata che è la vostra, fuori dai buchi neri o dalle vette estreme; io vi osservo e vi vedo vivere là fuori, vi vedo avere paura del dolore, desiderare intensamente i miei voli ad ali spiegate ma poi ritrarvi, per paura anche di quelli.

E vedo che nella vostra paura del dolore voi evitate spesso la vita e nella vostra ricerca di felicità trovate di nuovo la paura che vi fa sterzare e cambiare strada, e questo vi fa perdere di vista anche la felicità che cercavate. E ripiegate su qualcos’altro di più rassicurante a cui date lo stesso nome. Spiegatemi se riuscite a trovare le parole, che vita è la vostra? Potete definirla una vita completa, viva, quella che non ha conosciuto ogni estremo, che ha cercato sempre l’equilibrio? E quando vi rendete conto che quello sforzo di tenervi al centro ha assorbito tutte le vostre energie e siete arrivati in fondo a quella strada senza averla percorsa davvero, ma solo sfiorata, cosa provate? Vi convincete che la vita è questa perché qualcun altro ha stabilito per voi che questa fosse la normalità, e intorno a questa parola che tanto vi piace disperdete le ceneri della vostra Personale e Unica Realtà.

A differenza di voi io non ho questa possibilità di scelta. Io vado dove la vita mi porta, mi faccio trascinare perché non so e non posso (e ora vorrei dirvi con rabbia : e neppure voglio!) rifiutarmi di seguirla sempre e comunque. Io esploro ogni angolo e non c’è niente che attutisca gli spigoli, non ci sono occhiali per proteggermi dalla luce, però che luce e che meraviglia quando la vedo tutta!

Ammetto che a volte vorrei provare ad essere voi, vorrei riuscire a impersonare i vostri ragionamenti che non posso seguire, vorrei provare ad immaginarmi domani, come voi fate ogni giorno.

Domani quando qualcuno di voi mi troverà su questa panchina. Domani qualcuno che non saprà niente di questo vorace vortice di buio in cui sono immerso adesso, penserà che ho scelto di far

uscire il sangue dalle mie vene in questo parco solitario perché non vedevo alcun domani, perché non ho pensato alle conseguenze e cercherà mille altri perché.

Qualcuno che non sa e non saprà mai della mia assenza di perché, dell’assoluto assolo del mio dolore, quel liquido nero che invade ogni pensiero e supera ogni altra sensazione, rendendo insignificante tutto il resto e inevitabili e indolori i tagli sui miei polsi.

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Epitaffio : il tuo nome iniziava per D, come il dolore che ti ha risucchiato, D come distanza che frapponevamo tra noi e te e che delimitava la tua solitudine, noi che non abbiamo saputo o voluto avvicinarsi davvero a te, ma anche come Dolcezza nei ricordi di tuo figlio a cui ancora manca quell’amore incondizionato che sapevi dare; D come dottori che nel tentativo di tenere a bada una malattia non ancora definita e stigmatizzata, anestetizzavano la tua mente con potenti farmaci, quelli stessi farmaci che ti hanno tolto improvvisamente per sperimentare una nuova terapia, lasciandoti senza paracadute sull’orlo di quel baratro in cui non hai potuto non cadere; infine D come Colui che predispone tutto senza darci spiegazioni e che in certi momenti viene voglia di imprecare e supplicare al tempo stesso oppure, semplicemente, D come destino.

LA CURA

‘Finalmente oggi due ore libere, due ore che niente e nessuno mi potrà mai togliere, due ore che ogni mercoledì attendo con impazienza, due ore sola con…’

Questo sta pensando lei mentre il suono caraibico del suo cellulare sembra assumere un tono minaccioso mettendosi a squillare proprio in prossimità della pausa pranzo. “Mio Dio è Carlo…che faccio rispondo o non rispondo?” Pensa esitando mentre porta il cellulare all’orecchio

“Ciao Laura, perché non pranziamo insieme oggi? Ho un’ora libera e ti passerei a prendere, dato che questa settimana tra cene di lavoro e orari assurdi in prossimità delle dichiarazioni dei redditi quando rientro a casa sei sempre già addormentata profondamente. Passiamo quest’ora insieme..sai, come quando eravamo fidanzati?” Oggi il tono accattivante di Carlo, che sicuramente starà sorridendo al telefono, lo avverte come un pericolo. Da fermare, subito. “ No amore mi dispiace tanto – riesce a malapena a trattenere il tono irritato – ti ricordi che il mercoledì ho l’appuntamento dall’osteopata, l’unico che riesce a dare sollievo alla mia cervicale e ai conseguenti feroci mal di testa che mi assalgono? Delle tante cure che ho fatto è l’unica terapia che sta iniziando a funzionare. Non posso rinunciarci, lo sai, non chiedermelo!”

“Scusa Laura hai ragione, ma sono molto incasinato in questo periodo e mi dimentico tutto. Sarà per un'altra volta…e speriamo di trovarti sveglia stasera e senza mal di testa..! Ciao tesoro!”

A passi svelti raggiunge l’auto, si allaccia la cintura con fare frenetico, la chiave si inceppa -Dio mi devo calmare !!! – pensa. Si ricompone, un lungo respiro per ritrovare il giusto battito del cuore e pensare che va tutto bene, tutto andrà come lei desidera, anche questa volta.

Parte e la strada le sembra tappezzata di fiori, un senso di serenità si propaga in lei, quando..

‘Baila baila.’ riparte el ritmo salseiro sul cellulare “Mamma sei tu! Che è successo, non sarà mica per il babbo?” “No Laurina, stai tranquilla tuo padre è stabile, anzi i dottori parlano quasi di miglioramento oltre ogni previsione; ti volevo solo chiedere se mi potevi accompagnare a trovare la zia Gioconda nell’ora di pranzo, c’è il passo all’ospedale e ci volevo andare visto che è là da due giorni ed io ancora non ci sono andata” Ufffffff……dissipare la rabbia, stemperarla e cercare di rimanere calma, sempre…”Mamma stai tranquilla è l’ottava volta che la zia Gioconda va in ospedale quest’anno e vedrai che anche questa volta la rimanderanno a casa senza che le abbiano trovato nessuna vera malattia. Oggi non posso, ho del lavoro extra da sbrigare! Ci sentiamo stasera, ciao!”

Maledetto telefono. Spegnerlo? Non osa. Non ancora. Ma lei ha diritto al suo giardino segreto, alla sua oasi, alla sua piccola porzione di paradiso in terra e ci si sta avvicinando superando la sua naturale avversione per le bugie e il limite di velocità consentito. Già troppo tempo le è stato rubato e mentre corre pensa che la paletta alzata del vigile le sembra un segno del destino, un destino avverso e perfido che la farà arrivare in ritardo…”mi scusi ha ragione ma ho un terribile mal di testa che mi perseguita, mio padre sta male da tempo e devo correre ad assisterlo nell’ora di pranzo, capisce, alla sua età! E non mi sono accorta che stavo andando troppo forte, ecco. Non si ripeterà più…Grazie, lo sapevo che mi avrebbe capito, grazie ancora, lei è una persona di una gentilezza e umanità davvero uniche..” Inventare storie. A volte si deve fare, altre invece… E intanto il mal di testa è arrivato davvero, mentre il cellulare avvia di nuovo la sua danza, per la terza volta in dieci minuti.

“Giulia, bambina mia, ma che è successo? Perché mi chiami a quest’ora, non dovresti essere ancora a scuola?” “Tranqui mamma non è successo niente di grave, ma non mi sento sicura per la verifica di Tecnica e vorrei che tu venissi a prendermi e firmarmi un permesso per uscire prima da scuola” “ Non se ne parla nemmeno Giulia! Io non racconterò bugie per te! Sei tu che non hai studiato abbastanza ieri. Lo sai che bisogna assumersi le proprie responsabilità e…” “O.k., o.k., non farmi prediche per favore! Che palle però! Ciao”

Il percorso della vita è lastricato di ostacoli, specie quando si va verso ciò che amiamo! Il cuore batte forte, il mal di testa martella, l’ansia sale e aumenta ancora mentre lei è arrivata e sta salendo le scale, nascondendosi alla vicina di pianerottolo, quella pettegola, curiosa, chiacchierona.

Le sue chiavi nella porta: finalmente, ce l’ha fatta. Nessuno saprà mai che lei è lì, felice come poche altre volte quando arriva nella stanza dove lui l’aspetta : un tocco, si accende, si illumina … il suo computer lì davanti a lei e un’ora di pace. Parte la musica delle dita sulla tastiera, il flusso dei pensieri prende forma, la fantasia e la creatività libere di esprimersi senza vincoli e senza giudizi. Il mal di testa è sparito. Tutto il resto è sparito. Inventare storie.La cura.

GRETA

Della celebre Diva ha il nome, lo sguardo che cattura e qualcosa di indefinibile che le conferisce un aspetto al contempo altero e fragile. Ma lei, Greta, fa paura, e lo capisci subito appena incroci quell’azzurro profondo dei suoi occhi che sembrano aggrapparsi a te per trascinarti in profondità che non vuoi né puoi sondare.

La incroci per i corridoi dell’albergo in cui si svolgono i meetings, te la ritrovi accanto nell’aula del corso di Naturopatia e capisci subito, con una comprensione che non riguarda la testa, ma le tue viscere, che sussultano al vederla, che qualcosa non va. Non va in lei che adesso ti sta guardando da vicino e non va nemmeno in te, e lei col tuo sguardo pieno di richieste te lo ricorda. Qualcosa di lei ti parla di un animale affamato e bisognoso, ma nel momento in cui stai pensando di allungare la mano per porgerle il nutrimento che ti chiede temi che te la sentirai poi afferrare da denti aguzzi o artigli affilati, e allora ti prende la voglia di scappare, per non permetterle che si aggrappi a te neanche per un istante.

Greta ti si getta addosso già con il tono della voce e ti senti impotente quando ti chiede di fare assieme a lei l’esercizio che l’insegnante di turno propone, vorresti ma non osi sottrarti e mentre dici ‘ok’ senti che le tue energie se ne stanno andando; e quando stai pensando di offrirti volontario per sperimentare ‘dalla teoria alla pratica’ con il docente, lei è già lì, stesa sul lettino o in piedi davanti al microfono prima che qualcuno osi dire niente. Perché ognuno sa, anche se non saprebbe con esattezza spiegarne il perché, che tra i partecipanti al corso lei è quella che ha più bisogno di tutto.

Ognuno di noi sa un pezzo della sua storia, qualcuno per sentito dire, qualcuno perché glielo ha raccontato lei in uno dei suoi inarrestabili dialoghi/monologhi. Una storia che potrebbe essere quella di tanti, che comincia come molte altre, con un’infanzia agiata ma triste, con un padre tanto amato ma sempre assente, perso dietro ad altre donne, sempre pronto a darle critiche e mai ascolto; un’infanzia trascorsa con tanta malinconia che neppure la madre, bella distratta e bionda, sempre attratta dalla superficie dell’esistenza, riesce a stemperare. Una storia che parla soprattutto di solitudine temuta e di ricerca disperata di amore, che talvolta la porta ad incontri drammatici come quello con una madre che si chiama droga e che c’è nei momenti di bisogno. Un passato da cui si è staccata – racconta – ma che le ha lasciato in eredità una malattia che non l’abbandonerà mai, quattro lettere pronunciate sottovoce che spaventano chi le ascolta.

Greta ha un fidanzato dall’aria poco raccomandabile, che l’accompagna spesso e spesso viene a riprendersela alla fine della giornata, mentre lei fuma nervosamente aspettandolo fuori dall’hotel, una mano sul cellulare a distribuire sms, lo sguardo perso nel vuoto e supplicante quando incontra quello di qualcuno di noi . Greta che sembra non conoscere niente al di là del suo disperato bisogno, che dice di voler diventare operatore del benessere per dare ad altri quell’ascolto e quell’attenzione che lei per tanto tempo ha cercato invano.

Greta ti fa rabbia perché è disonesta con quel suo aspetto da cucciolo bagnato pronto a trasformarsi in vampiro, e ti suscita sensi di colpa che ti perseguitano finchè lei è nei dintorni, perché non hai né voglia né forza di aiutarla e di darle quello che chiede, perché anche quando sei riuscita a scapparle continui a sentirti in colpa pensando che potresti esserci tu al posto suo.

E ti fa star male pensare che in fondo è la più onesta di tutti, lei sempre lì con il suo bisogno esibito,

perché Greta è tutta lì e non nasconde nulla, lei è quella sofferenza che ognuno di noi cela accuratamente dentro di sé rimpicciolita, oscurata, negata e vedendo lei capisci che quella cosa che tutti cerchiamo di soffocare potrebbe esplodere, ingigantirsi, trasformarsi in quel cavallo senza briglie chiamato disperazione e travolgerti, lasciandoti a terra senza respiro.